Quando uno psichiatra scrive un libro che parla di etica e di politica, cioè di filosofia, non ci si può aspettare un libro facile da leggere; e infatti non lo è. È un libro duro e ostico, difficile da leggere e faticoso da seguire; è molto pessimista, e reca come sottotitolo “Agonia di una civiltà”, intendendo, naturalmente, la nostra, quella nata in Grecia tremila anni fa, e oggi denominata civiltà occidentale. Dopo aver definito cosa deve intendersi con tale denominazione, Andreoli descrive la realtà attuale, caratterizzata da una regressione che porta al dominio della distruttività; passa in rassegna i principi costitutivi della nostra civiltà e indica i segnali e le conseguenze della loro caduta; intravede un barlume di speranza nel minimalismo esistenziale, per poi concludere che non è attraverso l’individualismo, anche non patologico, che ci si può salvare, ma solo attraverso un recupero dello spirito di comunità. Ma la sua conclusione è che questo recupero non ci sarà, e che “i mei occhi percepiscono uno scenario nel quale la mia civiltà, lentamente ma inesorabilmente, mi pare destinata a finire”. Cosa la sostituirà? Secondo A., ci sarà una nuova epoca di barbarie, in cui gli sviluppi patologici dell’individualismo (egocentrismo, egoismo, “mors tua, vita mea”) prevarranno e porteranno la maggior parte dell’umanità a condizioni estreme di povertà. Che dire? Speriamo che si sbagli. Speriamo che qualcosa o qualcuno riesca a invertire il percorso che A. disegna, e che oggi riesce difficile contestare. Il tempo c’è ancora, quelle che mancano sono le persone, che oggi, in questa civiltà, sono, salvo poche eccezioni, ripiegate su se stesse. Ma non ci siamo solo noi, e io credo che possiamo ragionevolmente sperare che da altre civiltà umane arrivi quel che possa salvare la nostra. Le opportunità già esistono, resta a noi coglierle.
Ho letto giudizi tranchant (in senso negativo) su questo libro: immagino che ciò sia dovuto ad una struttura che non si capisce bene se sia confusiva o confusa. Io propendo per la prima, ma non escludo l’altra. Sembra quasi che le idee di A. siano maturate in corso d’opera e che a lavoro finito non abbia voluto cancellare le tracce di questa maturazione. Confidando che sia così, secondo me ha fatto bene, perché, se il libro è confusivo, può meglio agire come stimolo per l’elaborazione personale.
I punti che mi hanno maggiormente colpito (sono necessariamente tanti, in un libro ricchissimo):
Il concetto di adattamento all’ambiente di Charles Darwin viene da A. sottratto da una dimensione cronologica estesa a una dimensione ristretta, che non mi sembra condivisibile. L’obiettivo è quello di dimostrare che l’adattamento è una lotta violenta per la sopravvivenza, ma la spiegazione non è convincente. L’adattamento è anche e soprattutto una lenta evoluzione: si cambia il modo di procurarsi l’ossigeno, si modifica la dentatura, si allunga o accorcia il collo, le zampe diventano braccia e gambe, il pollice diventa opponibile…
Il moderno eroe del terrore è un debole, un frustrato, un perdente, che cerca un riscatto per la propria mediocrità, come Hitler. Non era così nell’età classica, dove pure l’eroe moriva, ma lo faceva con inalterata grandezza, come Ettore, o al culmine di una sfida impari, come Ulisse.
“Il fascino neutralizza la ragione”, dice a proposito dell’adesione al nazifascismo di illustri uomini di cultura, come Heidegger: oggi è più difficile, per fortuna, perché la storia ha fornito il suo insegnamento, ma purtroppo non tutti sono stati in grado di cogliere questo insegnamento, e la ricaduta è ancora possibile. Storicizzare i fenomeni è importante, e qui A. mostra qualche debolezza.
Ahi, ahi: A. attribuisce a Stalin l’invasione dell’Ungheria, mentre invece Ioseb Besarionis era morto tre anni prima.
I nuovi strumenti digitali offrono nuove protesi per la paranoia, perché offrono la possibilità di comunicare a livello planetario, e sembrano proprio costruiti per allargare il delirio. L’introduzione sistematica di una logica binaria determina una permutazione della mente umana, facendole perdere razionalità e affettività. Credo che vada intesa come affettività comunitaria, perché quella familistica ne viene invece esaltata.
Gli interessi economici portano l’occidente a collaborare con il terrorismo, attraverso i guadagni consentiti dal mercato nero del petrolio. Torna alla mente quel funzionario americano che diceva che per colpire il terrorismo, non serve bombardare l’Afghanistan, e sarebbe molto più utile bombardare le Isole Cayman. Lo misero subito a tacere.
La civiltà è partita dall’agorà e si è arricchita del pensiero di Gesù di Nazareth. La cultura e la civiltà sono conquiste dell’uomo e non si tramandano con i cromosomi, ma solo attraverso l’educazione. Queste affermazioni di A. fanno esplodere un fuoco artificiale di pensieri, che richiederebbero un libro intero per essere descritti. Uno per tutti: come è stata possibile la schiavitù attraverso i secoli, e come è possibile che ancora esista? E non in luoghi remoti: qui, tra noi.
“… questa economia … è giunta alla totale follia e, almeno per questo, è giustificato che persino uno psichiatra tenti di inserirla dentro la propria disciplina”. Si parla ovviamente dell’economia basata sulle transazioni finanziarie, staccata dall’economia reale, nella quale i guadagni finiscono, finché il sistema non salta, nelle tasche di pochi imbroglioni. Poi, nel 2008, il sistema è saltato, e la crisi conseguente è stata scaricata su chi non ne aveva colpa, per cui ora non si sa più chi debba finire in analisi. Ci dovrebbe finire il sistema, come si legge tra le righe di A., ma ormai abbiamo capito che questo non accadrà.
Se il risparmio fosse stato gestito nel rispetto dei risparmiatori, la crisi del 2008 non ci sarebbe stata. Tutto è stato causato dal dualismo e dal conflitto tra risparmio e profitto.
Una quadratura del cerchio: a questo si riduce la necessità di garantire le individualità nell’ambito di un insieme che è casa comune.
Nonostante il progresso abbia portato all’allungamento della speranza di vita e al miglioramento delle condizioni economiche, mai come in questo momento il malcontento, la frustrazione e il potenziale distruttivo hanno raggiunto livelli così alti. Questo rileva A., ma qui si riferisce soltanto al nostro mondo, mentre negli altri i problemi sono altri, ancora più gravi.
I principi dell’umanesimo: rispettare la vita; l’uomo ha bisogno dell’altro da sé; la consapevolezza del proprio limite; il concetto di simmetria; l’incompatibilità della condizione umana con la lotta; il mistero; il mistero; la mancanza di libertà (o forse i limiti di essa); la bellezza; la passione; il più debole è come noi; non ho capito quale sia l’undicesimo principio; i morti fanno parte dell’umanesimo. Tradire i principi è un delitto contro l’umanità.
Sulla simmetria, A. dice che poiché io vivo grazie all’altro e l’altro grazie a me, allora io e l’altro abbiamo la stessa funzione. L’amore è simmetrico; la ricchezza è asimmetrica, perché presuppone la povertà di qualcun altro.
Il male è il tentativo di negare i principi primi, per giustificare comportamenti disumani.
Le leggi servono a proteggere i deboli dai potenti, ma non si può chiedere ad esse di sostituire l’etica, perché le leggi sono costruzioni che possono cambiare, mentre l’etica è immutabile, e il giudice non emette sentenze etiche, ma applica le leggi vigenti.
Il legame con il despota è ottenuto per mezzo del terrore; il legame con un maestro si basa sul carisma, ed è empatico.
La ricchezza in senso di larga disponibilità di risorse modifica il proprio significato in stretta di pendenza da chi la possiede (chi si è) e dell’uso che se ne fa. In sé, è solo uno strumento, e come tal neutro.
Una società dove si parla molto è una società spaventata, dove la parola diventa una maschera con cui nascondersi.
I comportamenti della follia: schizofrenia, depressione, maniacalità, minimalismo. A. confronta questi comportamenti con i principi dell’umanesimo e individua quale viene disatteso da ciascuna di queste follie. Ma così siamo tutti pazzi, e probabilmente ha proprio ragione. Studia anche i meccanismi per cui si arriva a questi comportamenti: la negazione, la proiezione, la copertura e il capovolgimento.
Ma al di là dei comportamenti della follia, vi sono anche i sistemi lucidi di violazione dei principi dell’umanesimo, e A. li riscontra in altrettante maschere: quella dell’imbroglione, che nell’aggiramento cerca solo il proprio vantaggio; quella del furbo, che gioca con i principi per avvalersene; quella del raccomandato, la figura più meschina; quella dell’intransigente, che tradisce la morale ma con la presunzione di difenderla; la maschera dell’invisibile, un individuo che assorbe dal mondo senza dare nulla in cambio; la maschera del ricattatore, che cerca nel ricatto l’immunità per le proprie colpe.
A. distingue scrupolosamente la povertà dalla miseria, secondo l’idea che il povero lotta per migliorare la sua condizione e il misero, invece, soggiace alla sua condizione e cerca solo di sopravvivere. Non lo colgono altri desideri, che invece non mancano a chi può godere dell’utile e del superfluo.
Accenna al lavoro umano come inutile in una struttura produttiva basata sul lavoro delle macchine, senza neppure citare le minacce dell’intelligenza artificiale, ma dimenticandosi di chi dovrà progettare, programmare e sorvegliare il lavoro compiuto. Bisognerebbe inserire in questo discorso anche tutti quelli che competono al controllo di qualità, ma sarà meglio farlo un’altra volta.
Ma qual è l’oppio dei popoli? La religione? La televisione? Il WEB? Secondo A. è la ricchezza, e il desiderio di conquistarla, che allontanano l’umanità dall’umanesimo e narcotizzano la sua coscienza. Temo che abbia ragione, ma bisogna prestare attenzione anche ai mezzi di cui il potere si serve per alimentare quel desiderio.
Devi conoscere anche l’altro, dice A. Se conosci solo te stesso, rafforzi il tuo individualismo, cosa che del resto è in linea con i dettami della civiltà attuale. Invece, una civiltà è un modo di vivere, e non si vive da soli, si vive con l’altro.
I fondamenti della civiltà occidentale: la ragione, oggi in grave difficoltà, assediata dall’empirismo e dalla ricerca delle verità assolute, che sono la sua negazione, perché solo attraverso il dubbio si promuove la ricerca; la digitalizzazione, poi, ha impoverito il nostro linguaggio, e con esso il ragionamento, incoraggiando a cercare la semplificazione anche dove non ha senso applicarla. In tutto ciò che non riguarda la fede, la verità è sempre temporanea, per poi diventare un errore quando la ricerca va avanti e fa nuove scoperte. Il mito della verità induce all’ignoranza.
I fondamenti della civiltà occidentale: la religione, che risponde a quella parte del pensiero esclusa dalla comprensione razionale. La religione non si contrappone alla ragione, ma la completa. Ma anche la religione non gode di buona salute, perché l’umanità cerca in altre direzioni qualcosa che l’aiuti a vivere, combattendo le sue paure e i suoi dolori.
I fondamenti della civiltà occidentale: la res publica, per la quale il bene pubblico deve essere promosso da tutti e ognuno si impegnerà per il bene non solo suo, ma anche degli altri. Da qui nasce l’etica politica, e viene a mente JFK, quando diceva “non chiedetevi cosa lo stato possa fare per voi, ma quello che voi potete fare per lo stato”. Ad un A. innamorato della grecità non si può non ricordare che ad Atene gli schiavi costituivano circa il 50% della popolazione, e nella rivale Sparta erano ancora di più.
I fondamenti della civiltà occidentale: l’amicizia, che per A. ricorda il balletto, che vive dell’intreccio del corpo di ballo. La contrappone all’amore, che relega nel privato, perché riporta all’individualismo e all’egocentrismo, che invece l’amicizia esclude. Si potrebbe dire ad A. che nella sua Grecia classica la pedofilia era cosa ordinaria e non condannata, ma forse è meglio gettare acqua sul fuoco, riflettendo su quanti aspetti diversi possano assumere amicizia e amore e come entrambi possano avere momenti oscuri.
I fondamenti della civiltà occidentale: la bellezza, generatrice delle arti che salverà il mondo, secondo il principe Myškin. Ma anche le arti non godono di buona salute, e i primi nomi di artisti che vengono in mente sono fenomeni di mercato.
A. si considera un pessimista attivo nel cercare soluzioni, e in questo si considera migliore dell’ottimista inerte, che attende soluzioni da altri, e aggiunge considerazioni sui meccanismi di resistenza al cambiamento. Ne vede i pericoli per la nostra democrazia che, con la disaffezione dei cittadini, rischia di diventare la maschera di qualcos’altro: una semplice finzione per coprire un autoritarismo di fatto. E A. individua il motore dei meccanismi di difesa dello statu quo nella paura, coniugata in mille modi attraverso i secoli. Lo si vede anche dalle statistiche che dicono che i luoghi privi di immigrati sono quelli che maggiormente li temono, per paura di un peggioramento delle loro condizioni. Ricorda come, alla attuazione della legge Basaglia, i “ricoverati” nei manicomi la temevano, perché temevano il mondo esterno, e preferivano rimanere nelle loro condizioni di prigionia. La sua stima globale è che si tratti di un atteggiamento infantile.
A. mette in guardia contro le realtà virtuali che hanno il potere di sopraffare la realtà concreta, e vede questo pericolo nella televisione e in internet, che ha molti meriti, ma nasconde nuove minacce di alienazione.
A. vede con simpatia il minimalismo esistenziale di chi vive come se non ci fosse un domani, rifiutando le mode, ma alla lunga non lo considera una soluzione valida, perché tragico nei confronti del benessere collettivo: tutto sommato, è una soluzione egoistica.
Parla della politica e della logica perversa dei partiti, dimostrando in questo di non riconoscere il ruolo che la nostra costituzione attribuisce loro. Mah. Dice anche che il potere è sempre ingiusto, e molto spesso ciò corrisponde al vero, anche se bisogna capirsi bene su cosa vuol dire potere; contrappone al potente il maestro, e individua i maestri nei guru indiani, nel monaci del Monte Athos, in qualche villaggio africano ecc.: secondo me, ce ne sono anche altri, anche qui da noi. Un nome: Emma Bonino.
Si è sempre detto che la disonestà è provocata dalla povertà, perché l’affamato è indotto al crimine per procurarsi il minimo vitale. Oggi, assistiamo al fenomeno contrario: sono i ricchi che delinquono per diventare ancora più ricchi attraverso i paradisi fiscali e le transazioni spregiudicate, che generano nuove povertà.
La pace è essenziale per la civiltà, e non ci può essere civiltà in assenza di pace, ma il passato è esso stesso un serbatoio di rancori. Occorre riportare gli onesti alla politica da cui si sono allontanati per orrore dell’ingiustizia. A. mostra anche la sua ricetta per il fisco: tassare il ricarico. Solo così il fisco diventa la misura del contributo del cittadino per la società.
L’umanesimo non si può fondare sul lavoro e sulla fatica, perché questo esclude vaste categorie di esseri umani: i disabili, gli ammalati, quelli che vivono nella paura o nei paesi in guerra o preda della siccità, ecc. Serve invece un sistema solidale che includa tutti e tutti promuova.