Una lettera a Matteo (3/12/2013)
Carissimo,
ti rispondo oggi, ma ti ho già risposto altre volte sulle questioni che sono sul tavolo, l’ultima domenica giusto a tavola, e non ho molto da aggiungere a quanto detto. Lo riassumo in due righe:
- Il partito deve essere una fucina di idee per gli anni a venire, idee che concorrono alla formazione del programma per le elezioni successive, mentre gli eletti devono gestire l’incarico che hanno assunto su mandato degli elettori;
- Quando termina un mandato il corpus fondamentale dei candidati va formato con le persone che hanno maggiormente concorso alla preparazione del programma, fatta salva una quota limitata di persone con esperienza.
Come ti dicevo, questo dà modo di ottenere molti risultati interessanti, quali:
- Il contatto costante di chi prepara il programma con la base del partito, cioè con gli iscritti, i quali costituiscono la fucina di idee; questo contatto deve essere tenuto dal partito, mentre gli eletti si devono concentrare sul compito loro affidato, di governo o, male che vada, di opposizione;
- La possibilità di preparare un programma con tutto il tempo a disposizione, mentre altri gestiscono il mandato elettorale ottenuto, non meno di cinque anni, ma auspicabilmente dieci, che è la durata in carica di un sindaco “normale”, che non sia né un Alemanno, né un Giorgio La Pira, che se avessimo un La Pira lo vorrei sindaco a vita;
- Il ricambio del personale politico con un periodo medio di 11-12 anni.
Come ti dicevo, la preparazione di un programma non consiste nello stilare un elenco di cose da fare (quello si chiama piano, e non programma) ma richiede anche che si faccia un confronto/bilancio con le risorse da utilizzare (risorse umane, finanziarie e tecnologiche) da attribuire a ciascuna voce del programma e che si indichino delle scadenze. Se tutto questo non c’è, non si può usare il nome di programma, sarebbe un imbroglio chiamarlo così. E capisci subito che un lavoro così vasto e profondo non si fa né in tre mesi, né in un anno: occorre molto di più.
Il fatto che si facciano errori, siano essi di comunicazione o di altra natura, colpisce e addolora, ma non mi scandalizza, forse perché so di aver visto accadere cose assai peggiori, sia nel nostro paese, sia in molti altri. Quello che è necessario fare, è non dimenticare, e imparare sempre dagli errori commessi. Anche di questo abbiamo parlato molte volte, su molti argomenti, e questo non fa eccezione, perché sempre si intrecciano vicende pubbliche e fatti personali, e tu sai quanto sia difficile imparare dall’esperienza degli altri, specialmente quando sono in corso lotte generazionali a tutti i livelli e ognuno è convinto di essere più bravo degli altri. Ci vuole tanta umiltà, per imparare dall’esperienza degli altri, e se tutti i giorni, dopo la doccia, si facesse anche un bel bagno di umiltà, si uscirebbe puliti non solo nel corpo, ma anche nella mente, e tutto sarebbe più facile e più bello.
Per tornare a discorsi più generali, inserisco una citazione:
“In realtà, la conoscenza necessaria per assumere decisioni pubbliche che siano davvero di interesse generale non è concentrata nelle mani di pochi. Questa conoscenza è dispersa fra una moltitudine di soggetti, privati e pubblici, ognuno dei quali possiede frammenti di ciò che è necessario sapere: ne fanno certo parte i grandi imprenditori, ma anche quelli non grandi; i tecnici degli organismi internazionali o proto-federali, ma anche quelli di migliaia di centri di competenza e ricerca; ne fanno parte i pubblici amministratori, ma anche i quadri dei corpi intermedi della società; ne fa parte il ceto medio urbano, ma anche i lavoratori dell’industria e dei servizi sociali. Muta quindi, questa conoscenza, al cambiare dei contesti a cui quelle decisioni pubbliche si applicano, ovvero il loro effetto dipende dai contesti. Ancora di più: la conoscenza necessaria spesso neppure esiste quando sorge un problema o un’opportunità; essa scaturisce piuttosto come “innovazione” dal confronto e dal conflitto fra molteplici soggetti che possiedono conoscenze parziali.”
Ovviamente, chi scrive è Fabrizio Barca, e, volendo riassumere, chiede il contributo di tutti “per assumere decisioni pubbliche che siano davvero di interesse generale”. Se qualcuno non dà il suo contributo, poi non si lamenti. Barca chiama tutto questo “mobilitazione cognitiva”, che non deve, bada bene, essere fatta per divulgare tra gli iscritti le idee del vertice, ma al contrario, deve dare modo alle idee della base di emergere e riempire di sé il programma del partito, il quale diventa così un partito palestra che offre lo spazio necessario alle idee che emergono.
Detto questo, ricordiamo che si tratta in queste primarie di scegliere il segretario del partito, cioè colui che deve far funzionare il partito in maniera che sia la fucina che si diceva. L’ideale in questo momento sarebbe proprio lui, Fabrizio Barca, ed è un vero peccato che non si sia candidato. D’altra parte, vedo che Renzi e Cuperlo parlano invariabilmente di politiche di governo che il partito deve sostenere, e non parlano mai di funzionamento del partito, forse perché a Renzi il funzionamento del partito non interessa, e preferisce scegliere i suoi collaboratori altrove, mentre Cuperlo sembra convinto che il funzionamento del partito non debba essere riformato. Forse è per questo che Fabrizio Barca e Laura Puppato hanno sposato la causa di Pippo Civati, ed è certamente per questo che io lo voterò domenica prossima. Intendiamoci, non so se sia davvero la persona giusta: come organizzatore è tutto da scoprire, ma d’altra parte, quando Amendola e Ingrao scelsero Enrico come futuro segretario, pensavano solo a scaricargli l’onere della segreteria, non si aspettavano certo che li avrebbe messi in ombra dall’alto di una personalità che ancora non gli conoscevano.
Per quanto concerne gli aspetti più privati e familiari, li rimando ad altra lettera, ma anche qui non c’è, al momento, molto da aggiungere: l’importante è mettere da parte la fretta, che sempre ti assale e sempre prevale.
Ciao