Auto da fé

Il grande romanzo di Elias Canetti
La trama

Prima parte: Peter Kien è uno studioso di lingue e culture orientali, stimatissimo negli ambienti accademici; vive a Vienna e possiede una splendida biblioteca per la quale ha speso quasi tutte le sue sostanze. È un vero fanatico dei libri, a cui attribuisce una vita propria. Assume Therese come governante e per otto anni le cose procedono bene. Poi, quando lui ha quarant’anni e lei cinquantasei, si convince che lei ami i libri quanto li ama lui, e la sposa. Pian piano, lei diventa padrona di casa e riduce sempre più lo spazio che il marito ha il diritto di occupare, fino al giorno in cui lo caccia via.

Seconda parte: senza allontanarsi da Vienna, Kien comincia una vita randagia, con l’ossessione di una sua biblioteca virtuale, per la quale si comporta come se fosse reale, coinvolgendo in questo un compagno di strada, giocatore di scacchi, piccolo imbroglione, storpio, che non lo deruba, ma non si fa scrupolo di sfruttarne le debolezze, coinvolgendo altri disperati. Ma scopo ultimo dello storpio è quello di andarsene per cercare miglior fortuna in America: non ci riuscirà. Kien rivede Therese in un commissariato di polizia in una scena di equivoci da incubo, dopo che lui si è convinto che lei sia morta per colpa sua.

Terza parte: ormai siamo alla pazzia. Kien è prigioniero del portiere del suo condominio, un ex poliziotto violento, in combutta con Therese, sempre con la mira del patrimonio dello studioso, che continuano a credere ingente. Nonostante la prigionia, riesce a coinvolgere il fratello Georg, insigne psichiatra che vive a Parigi, innamorato dei suoi pazienti, che vede più umani dei sani. Georg risolve i problemi pratici incombenti, permette a Peter di tornare nel pieno possesso della sua casa e della sua biblioteca, ma non riesce a far niente per i fantasmi che ormai abitano il fratello, che perirà nell’incendio da lui stesso provocato.

La mia lettura

Ho letto finalmente questo romanzo (Garzanti, 500 pp), acquistato, o forse regalato, poco meno di quaranta anni fa, quando a Canetti fu assegnato il premio Nobel per la letteratura. Nonostante la mole e il tema, questo libro si legge bene, senza difficoltà, e lascia persino l’impressione di qualcosa di incompiuto.

Il romanzo riassume in sé una vita. Nonostante le atmosfere, claustrofobiche e surreali, è lucido e trasparente, e parla di un mondo andato in pezzi che non comunica più nemmeno con se stesso. È il cammino della cultura che, per paura della realtà, si chiude a essa e con questo si condanna alla propria autodistruzione.

Non c’è speranza, in questo romanzo, ma tanti richiami a situazioni chiuse e i personaggi sono altrettanto chiusi, ciascuno in una realtà esclusiva fatta di poche cose, ma nessuna in comune fra più personaggi.

È conflittuale il rapporto fra l’individuo e la massa, anzi, viene visto come il conflitto per eccellenza. Peter è palesemente individualista e isolazionista, ha a cuore solo il suo lavoro, che conduce in solitudine e silenzio assoluti, con sprezzo del guadagno, evitando di parlare in pubblico, rifiutando di insegnare, misantropo e ferocemente misogino. Ma allo stesso tempo, sente immanente il potere incombente della massa, profetizzando con questo l’avvento dei totalitarismi.

L’atmosfera ricorda le più allucinate tra le pagine di Dostoevskij, come quelle dell’Idiota a casa Epancin, ma il rimando tra elementi realistici e altri immaginati e sognati è serrato e non cessa mai. L’uso del dialogo interiore, ben presente, non somiglia a quello di Joyce, privo di interruzioni, ma, al contrario, è fatto di periodi brevissimi, di pochissime parole, anche una soltanto, generando un ritmo che a tratti si fa frenetico.

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