Il partigiano Johnny

Romanzo di Beppe Fenoglio pubblicato da Einaudi nel 1968

Dei tre grandi libri italiani di narrativa sulla 2WW e sulla guerra partigiana, questo è l’unico che possa essere considerato un vero romanzo, anche se incompiuto. Gli altri due, Se questo è un uomo, di Primo Levi, e Il sergente nella neve, di Mario Rigoni Stern, sono piuttosto dei diari, sia pure scritti a posteriori e con stile letterario. La scena è quella della guerra partigiana nelle Langhe, segnatamente nel periodo delle breve presa di Alba (la repubblica partigiana dal 10 ottobre al 2 novembre 1944) e dello sbandamento seguito al proclama di Alexander, che i badogliani applicano senza avere dubbi sull’opportunità e la giustezza. Seguono i mesi dell’estrema solitudine, dello stillicidio di morti solitarie e poi una ripresa incongrua dell’iniziativa bellica, senza averne i mezzi, e perciò foriera di nuove tragedie. Ma di questo libro sorprende prima di tutto la lingua, piena di neologismi e di anglismi, ma anche di termini desueti e, forse, mutuati da un dialetto che non conosco. Johnny, amante della letteratura inglese, pensa nella lingua di Shakespeare, e in quella lingua i suoi pensieri sono riportati. Il secondo aspetto che sorprende è la disomogeneità delle formazioni in lotta: questo è più evidente tra i partigiani, suddivisi in formazioni che non collaborano tra loro e che hanno la tendenza ad agire come in una guerra normale, con presidi e schieramenti, non in termini di guerriglia come vorrebbe Johnny. Ma anche i fascisti hanno problemi di comportamento e di strategia. Colpiscono le morti di molti combattenti, di Tito e di Kira, del Biondo e di Michele, il sergente meridionale, quella di Ivan e di Luis, ma anche quella della spia fascista, un lugubre individuo giustiziato da Johnny medesimo. La conclusione aperta, che lascia intravedere la morte del protagonista senza darne la conferma, potrebbe essere un lascito dell’incompiutezza del lavoro dello scrittore, morto ad appena 41 anni, ma potrebbe anche essere frutto dei drammi, dei dubbi e delle delusioni che il partigiano Fenoglio ha conservato e sviluppato dopo la fine della guerra. È una lettura un po’ ostica, ma molto bella e appagante.

Alcuni punti che ho trovato particolarmente interessanti:

  • I fascisti superstiti debbono aver l’impressione che i loro morti sono stati provocati da un albero, da una frana, da un’influenza nell’aria, debbono impazzire e suicidarsi per non vederci mai: è il richiamo di Johnny alla guerra di guerriglia, come sarà teorizzata da Mao e Che.
  • Il sole calò, ed enorme, abissale fu la perdita di esso. Un vento lo rimpiazzo, vesperale, luttuoso, e cricchiante. Più attenuato che nel cielo aperto, dove prese ad attaccare e sfilacciare le maestose colonne di fumo alte sui paesi puniti: è l’immagine, forse un po’ troppo aulica, delle rappresaglie fasciste contro la popolazione civile.
  • Enough, enough, today I’ve enough. Maybe they two were still alive, but they are dead, they both. … I’ll go on to the end, I’ll never give up: il pianto di Johnny per la presunta morte di Pierre e di Ettore, e la sua determinazione a continuare la lotta.
  • “Ah quanto sono fortunato, ah quanto sono immeritatamente fortunato.” Fino ad allora la fortuna aveva fatto sì che egli non si inserisse in quella geometricità. Era anche lui andato e si era fermato, stato qui e stato là, dormito e vegliato, inconsciamente scelto quella strada e quell’ora piuttosto che un’altra, tutto come Ivan e Luis, esattamente come tutti gli altri morti dell’inverno e dello sbandamento: è lo scoramento di Johnny, che ha visto la morte assurda dei due partigiani.

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