Romanzo di Paolo Nori
Non so bene perché, ma secondo me, protagonista di questo romanzo è la morte.
Dopo aver scritto su Fedor Dostoevskji e Anna Achmatova, Paolo Nori dedica un romanzo a Raffaello Baldini, poeta di Sant’Arcangelo di Romagna, che a Nori piace moltissimo, e non solo a lui, perché le sue poesie solo molto belle. D’altra parte, se Baldini scrive poesie che non sembrano poesie, Nori scrive dei romanzi che non sembrano romanzi, e alterna l’argomento principale della sua storia con pagine dedicate a se stesso, a nonna Carmela, alla compagna Francesca, che chiama Togliatti, e alla figlia Irma, che chiama Battaglia.
Pochi conoscono Baldini, che scrive nel dialetto di Sant’Arcangelo, ma inserisce a piè pagina la traduzione dei suoi versi in italiano, versi che parlano di storie e personaggi dei suoi tempi, di quel piccolo universo in cui lui, pur trapiantato a Milano per amore, ha sempre continuato a riconoscersi. Tutti e due, Nori e Baldini, parlano dei morti che “non dicono niente e sanno tutto”, delle case in cui sono cresciuti e del loro mondo, delle loro donne e dei loro caratteri distintivi: matto come un russo, si autodefinisce il Nori, e malato di bastian contrarite, del suo essere morto due volte, nei suoi incidenti stradali, lo scorrere della vita, nonostante ogni imprevisto che essa contiene.
Quel ricorrere di morti mi ha colpito moltissimo, non solo come persone che non ci sono più, ma anche come mondi scomparsi. Non è, a mio parere, il miglior romanzo di Nori, ma segna il suo ritorno in Italia, dopo due romanzi “russi”, e con quello, il ritorno al suo precedente modo di scrivere. Bene, bene così.