Oltre ad essere un bel libro quasi giallo, è anche, e direi soprattutto, un inno a Firenze. Le storie e le persone della nostra splendida città sono il fulcro del lavoro di Marco Vichi, come sempre. Il commissario Bordelli, anche se si rituffa di continuo nel suo lavoro, è sempre circondato dai suoi fantasmi, diversi da quelli del commissario Ricciardi, perché questi sono i suoi amici di San Frediano con nomi e soprannomi, i piccoli delinquenti che infinite volte ha consegnato alla giustizia e qualche volta anche aiutato a portare a termine i loro innocui misfatti. E poi, i fantasmi dei suoi amici della guerra partigiana, vissuta in prima persona da un punto di vista atipico, quella dei militari delle forze armate italiane che combattevano contro la barbarie nazifascista. E ribadisco guerra partigiana, perché in Toscana non l’abbiamo mai chiamata resistenza. Peccato che questo libro non abbia una conclusione, e ne preluda un altro in cui si svilupperà un’indagine che qui è appena incominciata. Non amo i romanzi a puntate, l’ho già detto, e lo riconfermo; vorrei che ogni romanzo potesse vivere indipendentemente da quel che c’è stato prima e da quel che ci sarà dopo, e invece anche qui, come già nel precedente Fantasmi del passato, Vichi non si distacca dallo splendido Morte a Firenze, bellissimo, citato persino da Franco Cardini come libro importante per la storia dell’alluvione del 1966.
Alcuni punti significativi:
Pasolini aveva ragione: a Valle Giulia, i veri rappresentanti del popolo erano i poliziotti, e lo abbiamo poi visto da come sono cresciuti i borghesi che stavano dall’altra parte, gretti e incapaci di essere buoni genitori. Da loro discendono quelli che oggi aggrediscono i medici e gli insegnanti.
Viva il lupo: oggi, lo diciamo normalmente, al posto del vecchio crepi il lupo, ma nel 1968 non lo diceva nessuno, e il suo uso in questo libro è anacronistico.
Renzi e Canapone: si direbbe che Vichi suggerisca a Matteo Renzi di fare come Leopoldo II, che se ne andò alla chetichella, ma da signore, appena si accorse che il vento era cambiato irrimediabilmente. Ma forse lo suggerisce anche ad altri. Anzi, ne sono sicuro.
Fasi lunari: fra i ringraziamenti, Vichi cita consulenti sardi e siciliani, finanzieri e storici; la prossima volta farebbe bene a consultare anche un astronomo, perché sulle fasi lunari non ne azzecca una.
Don Backy: già dal titolo del romanzo traspare il riferimento ad una canzone del Sanremo 68, a mio parere una canzone costruita su misura per il successo discografico pur nell’ambito del più bel Sanremo di sempre. Di quel Sanremo conservo il vinile antologico nell’interpretazione magica del grande Lionel Hampton. Sembra inverosimile che a Vichi piacesse quella canzone, ma d’altra parte, all’epoca aveva 10 anni, e quindi è perdonabile: per lui è un ricordo d’infanzia.
La vita è totalmente governata dall’immaginario? Le recenti elezioni politiche farebbero pensare di sì, visto che si è votato immaginando e illudendosi, più che facendo valutazioni razionali.
Il sonno e la veglia: parla del sonno del combattente, che cerca di rubare ogni minuto per cercare di riposarsi. Del resto, è storicamente accertato che i sondati della Wermacht, specialmente nel 1940, abusavano di metanfetamina, per essere sempre vigili e aggressivi. Poi, quando gli effetti collaterali della droga cominciarono a manifestarsi, le loro “prestazioni” calarono drasticamente.
William Saroyan: c’è un autentico culto per quello scrittore, che io avevo dimenticato, perché ne ho letto solo le riduzioni per ragazzi, tanto tempo fa.
Lode della solitudine: si cita Leonardo a tal proposito. Se tu sarai solo, sarai solo tuo. C’è chi dice il contrario, che se stai bene da solo vuol dire che hai dei problemi, ma invece, chi non sa stare da solo, non sa stare neanche con gli altri, perché lui vuole gli altri, ma gli altri non vogliono lui.
Una citazione da Blaise Pascal: ogni occupazione umana non è altro che una distrazione dal pensiero della morte. Pascal è un grandissimo, ma non mi sembra che questo suo pensiero si possa condividere. L’uomo di fede, compresa quella atea, sa cosa lo attende sull’altra sponda e non ha motivo di evitarne il pensiero. Se ha bisogno di non pensarci, è perché i dubbi lo attanagliano.