Sul carcere e sulla dignità

M. Flick e G. Colombo per un diverso uso della detenzione

Questo testo prende le mosse da interviste apparse sulla stampa (Huffpost, 03/05/20 per G. Colombo e 17/05/20 per G. M. Flick), ma vede la luce oggi, 30 Novembre, Sant’Andrea, per la ricorrenza della festa della Regione Toscana: non è un caso.

Prima di tutto, occorre citare la Costituzione della Repubblica Italiana, che recita così:

Art 13

La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.

Art 27

La responsabilità penale è personale.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte.

Aggiungiamo anche l’art. 51 del Codice Leopoldino (30 Novembre 1786, ed è per quello che la festa della Regione Toscana è il 30 Novembre)

Abbiamo veduto con orrore con quanta facilità nella passata Legislazione era decretata la pena di Morte per Delitti anco non gravi, ed avendo considerato che l’oggetto della Pena deve essere la soddisfazione al privato ed al pubblico danno, la correzione del Reo figlio anche esso della Società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi, la sicurezza nei Rei dei più gravi ed atroci Delitti che non restino in libertà di commetterne altri, e finalmente il Pubblico esempio, che il Governo nella punizione dei Delitti, e nel servire agli oggetti, ai quali questa unicamente diretta, è tenuto sempre a valersi dei mezzi più efficaci col minor male possibile al Reo; che tale efficacia e moderazione insieme si ottiene più che con la Pena di Morte, con la Pena dei Lavori Pubblici, i quali servono di un esempio continuato, e non di un momentaneo terrore, che spesso degenera in compassione, e tolgono la possibilità di commettere nuovi Delitti, e non la possibile speranza di veder tornare alla Società un Cittadino utile e corretto; avendo altresì considerato che una ben diversa Legislazione potesse più convenire alla maggior dolcezza e docilità di costumi del presente secolo, e specialmente nel popolo Toscano, Siamo venuti nella determinazione di abolire come Abbiamo abolito con la presente Legge per sempre la Pena di Morte contro qualunque Reo, sia presente, sia contumace, ed ancorché confesso, e convinto di qualsivoglia Delitto dichiarato Capitale dalle Leggi fin qui promulgate, le quali tutte Vogliamo in questa parte cessate ed abolite.

Il Codice del 1786, oltre ad abolire la pena di morte, aveva anche “eliminato affatto l’uso della Tortura, la Confiscazione dei beni dei Delinquenti, come tendente per la massima parte al danno delle loro innocenti famiglie che non hanno complicità nel delitto, e sbandita dalla Legislazione la moltiplicazione dei delitti impropriamente detti di Lesa Maestà”.

E ora i due giuristi:

Giovanni Maria Flick, piemontese del 1940, è un giurista, politico e accademico, Ministro di grazia e giustizia del primo governo Prodi e presidente della Corte costituzionale tra il 2008 e il 2009.

Gherardo Colombo, lombardo del 1946, è un ex magistrato, giurista e saggista, attualmente ritiratosi dal servizio; ha condotto o contribuito a inchieste quali la Loggia P2, il delitto Ambrosoli, Mani pulite ecc.

Diciamo anche subito che l’impostazione dei due giuristi è diversa, pur concordando sulla necessità di rivedere ampiamente la legislazione in materia: Colombo ne fa una questione di umanità, giudicando inaccettabile un’amministrazione della giustizia che odora ancora molto di desiderio di vendetta; Flick, invece, punta all’efficacia dei provvedimenti, ma ci tiene anche a smentire quanto scrive, con punte di sarcasmo, Meyer Levin: “Di norma, i giudici non sono scienziati: pensano che per rendere buoni gli uomini ci sia un solo modo, che consiste nel terrorizzarli affinché non osino fare il male.”

Vediamo ora alcune frasi di G. Colombo:

  • L’idea di mandare in galera una persona mi tormentava, mettendomi davanti a interrogativi insolubili e angosciosi. Ho cominciato a pensare che il carcere non fosse più compatibile con il mio senso della giustizia, la mia concezione della dignità umana, la mia interpretazione della Costituzione. Più che pensare, in realtà sentivo: sentivo tutta l’ingiustizia della prigione. Era ormai intollerabile. Perciò, dopo anni passati a pensarci, ne ho tratto tutte le conseguenze.
  • Ritengo il carcere, così com’è, non in coerenza con la Costituzione. L’articolo 27 della Costituzione dice che ’le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’. Eppure, basta mettere piede in qualsiasi penitenziario italiano, salvo rare e parziali eccezioni, per rendersi conto che le condizioni in cui vivono i detenuti lo contraddicono scandalosamente.
  • Sono convinto che oggi, dopo l’esperienza dei gulag, i padri costituenti non userebbero più la parola rieducazione per definire il fine della pena. Lo spirito della Costituzione è informato da una concezione che supera l’idea dell’obbedienza. La persona che la nostra Carta vuole formare è un cittadino adulto, responsabile, dotato di spirito critico e discernimento. Sono i presupposti della democrazia. Il carcere va nella direzione opposta. Insegna a sottomettersi all’autorità. Per questo è incompatibile con la Costituzione.
  • Il carcere così com’è oggi, in Italia, è da abolire. Non faccio nessuna fatica a dirlo. Conosco l’obiezione e perciò aggiungo: abolire il carcere non significa lasciare chi è pericoloso libero di fare del male agli altri”. È possibile mettendo le persone pericolose nella condizione di non esercitare la propria pericolosità. Adottando misure che limitino la loro libertà, ma garantendo il loro diritto allo spazio vitale, alla salute, alla dignità.
  • Senza la disponibilità a ri-accogliere nella collettività chi ha sbagliato, il tessuto sociale strappato dalla trasgressione della norma non si ricucirà mai. Questo significa il perdono: recuperare il rapporto. Non cancellare il male che è stato fatto. Riconoscendo il dolore della vittima e, per quanto possibile, riparandolo. Fermo restando, lo ripeto, che è necessario mettere chi può fare del male agli altri nelle condizioni di non farlo.
  • In una società senza perdono, la pena educa solo a obbedire. Insegna a rispettare le regole dicendo che non rispettarle costa molto caro. Anziché mostrare che la regola risponde a un principio di ragione.
  • È vero che gli esseri umani sono un miscuglio di contraddizioni e debolezze che fanno fatica a stare insieme. Il Grande Inquisitore conosce bene la natura umana, sa che l’uomo è fragile, che la libertà inquieta. Eppure qual è la sua soluzione? Dominare gli uomini. Indurli a deporre ai suoi piedi la libertà e offrirgli in cambio una custodia. Mantenendoli bambini, bisognosi di chinare la testa. Insegnandogli solo a obbedire. È quello che fa il carcere. Ecco perché è necessario abolirlo.

E ora alcune frasi di G. M. Flick

  • In Italia ci sarebbe da fare un lavoro di depenalizzazione importante. Ma qui, invece che valutare di ridurre i reati, li aumentiamo. Esiste un allarme sociale, giustificato o meno che sia? Noi creiamo un altro reato. Continuiamo, insomma, a utilizzare il codice penale in maniera preventiva, con la costante minaccia della detenzione. Non è un buon modo di operare.
  • Il carcere è considerato una realtà impermeabile a qualsiasi forma di cambiamento. È visto come strumento di reazione alla paura del diverso. Non è utilizzato come extrema ratio, ma come metodo normale per risolvere quello che è percepito come un problema. Si continua, insomma, a perseguire la strada del “carcere a ogni costo” e ci si dimentica dei diritti e della dignità del detenuto, oltre che della funzione educativa della pena.
  • Seguendo questa filosofia, si continuano a usare espressioni come “gettare la chiave” o “quella persona deve morire in carcere”. Ma c’è un principio che spesso viene dimenticato: è quello della pari dignità sociale. Questo non esclude nessuno, neanche i detenuti; neanche fra questi i condannati per i reati più gravi.
  • Il carcere come inteso oggi è un modello da superare, perché, in molti casi, non rispetta la dignità del detenuto. Non garantisce quei principi che pure sono scritti, nero su bianco, nell’articolo 27 della Costituzione. Così non è stato. Ha prevalso, anche questa volta, l’agire solo sulla base dell’emergenza, senza progetti di lungo periodo. Il seguire, a suon di decreti, le preoccupazioni dell’opinione pubblica. Più o meno motivate che fossero.
  • Non in tutti i casi, beninteso, ma bisognerebbe lasciarsi alle spalle quell’idea secondo la quale la reclusione in un istituto penitenziario sia la norma. In carcere dovrebbe andare solo chi è aggressivo e violento. Per gli altri sarebbe opportuno pensare a pene diverse, ma non per questo meno efficaci.
  • Intanto colpire più significativamente i patrimoni di chi si è arricchito commettendo un reato, secondo il modello sperimentato con successo per la criminalità organizzata. Ma poi penso a dei seri lavori socialmente utili; al divieto di esercitare le professioni con cui si sia commesso il reato; alla detenzione domiciliare. Consento al condannato di stare a casa, certamente poi dispongo dei controlli. Questo sarebbe un modo per non compromettere la dignità della persona.
  • Sono necessarie alcune condizioni. Prima di tutto condizioni culturali. Intanto la società deve essere in grado di assumersi un rischio. Di accettare che potrebbe accadere che qualche detenuto che sconta la pena in casa torni a commettere reati. Ma si può fare in modo che ciò, tendenzialmente, non accada. O che si verifichi il meno possibile.
  • La cultura giuridica ha attraversato tre fasi. La prima era quella della vendetta, che si limitava a un rapporto Stato-colpevole, la seconda quella del rapporto a tre: Stato, condannato, società che puntava alla rieducazione. C’è poi l’ultimo stadio, la giustizia riparativa. Quando, cioè, si arriva a cercare di ricostruire un rapporto fra il condannato e la vittima o la famiglia di quest’ultima attraverso la responsabilizzazione e la consapevolezza del primo. A volte accade.
  • Spesso a chi sta scontando una pena non vengono dati gli strumenti per intraprendere questa strada. Con tutte le conseguenze del caso. Io credo che, al netto delle presunte o effettive strumentalizzazioni, le rivolte sui tetti dei penitenziari come a marzo scorso, siano una conseguenza delle condizioni in cui vivono i detenuti quando si levano loro i pilastri essenziali di sopravvivenza: la speranza e la fiducia. E non è un bel segnale.

Una frase di G. M. Flick riguardante la Costituzione della Repubblica italiana, e tratta dalla stessa intervista è già stata commentata in un altro post. Intanto, vediamo quali possono essere le conclusioni delle idee dei due giuristi, che possono far capo a pochi assiomi:

  • Il delitto non paga e non deve pagare: riparare il danno anche quando è difficile da quantizzare e demolire l’illecito arricchimento devono essere cardini della giustizia;
  • La sicurezza del cittadino viene prima di tutto: gli aggressivi devono essere messi in condizioni di non nuocere, non solo per i danni che possono provocare in senso fisico, ma anche in riferimento a quanto può ledere la dignità e la salute mentale della persona;
  • Il recidivo non può essere tollerato: non si può usare lo stesso metro per chi delinque per la prima volta (purché si tratti davvero della prima volta) e per gli altri;
  • La rapidità della giustizia è fondamentale: la sua lentezza favorisce il malfattore su qualsiasi delitto, ma in particolare su quelli che riguardano la giustizia civile e il patrimonio;
  • L’ineluttabilità della pena è fondamentale: il che comporta che la giustizia deve essere efficace e arrivare alla soluzione dei crimini che oggi rimangono impuniti;
  • Anche la certezza della pena è fondamentale: una volta stabilito quale è la giusta pena, è necessario che questa venga scontata pienamente.

Alla fine di questo elenco elementare, le strade aperte sono molte, ed è evidente che la possibilità di trovare alternative al carcere cresce con il progredire delle tecnologie informatiche. Effettuare un controllo satellitare per la localizzazione del reo non sarebbe difficile, si tratta però di evitare gli abusi che potrebbero insorgere in uno stato che non fosse integralmente democratico e liberale. E anche il controllo delle comunicazioni del reo con l’esterno sarebbe semplice, specialmente se affidato all’intelligenza artificiale, ma vale la stessa avvertenza: è necessario essere certi che non ci siano abusi. Invece, l’installazione di dispositivi che impediscano l’uso della telefonia cellulare nei luoghi di pena è una necessità, e la supposta difficoltà di comunicare per la polizia carceraria è solo una scusa.

Comunque, i punti enunciati non si riferiscono tanto alla pena e all’uso del carcere, quanto piuttosto ai fini della giustizia, che, per essere tale, deve continuare a essere il baluardo che protegge gli aggrediti dagli aggressori, gli onesti dai disonesti, i deboli dai forti. Ma qui il problema è l’altro, quello del carcere e delle pene alternative al carcere che possano consentire il rispetto dei punti su esposti.

In dettaglio:

Pena uguale per tutti? Detto del recidivo, rimane da definire quali pene possano essere o non essere uguali a parità di reato.

  • Colpire i patrimoni di chi si è arricchito dolosamente: è giusto e opportuno, per fare in modo che il delitto non paghi, ma senza “danno per le loro innocenti famiglie che non hanno complicità nel delitto”, come diceva il Granduca, e applicando lo stesso criterio già utilizzato nella lotta alla criminalità organizzata. Dovrebbe essere utile in particolare con i reati finanziari e per la corruzione, ma sarebbe di difficile applicazione qualora (e spesso è così) i reati coinvolgano persone o istituzioni estere.
  • Lavori socialmente utili: deve necessariamente trattarsi di veri lavori ai quali non sia possibile sottrarsi e che durino per un periodo di tempo paragonabile a quello della detenzione, altrimenti è inutile; deve necessariamente trattarsi di lavori che chiunque possa svolgere, tenendo conto dell’età e delle condizioni di salute, altrimenti si entra in un loop da cui non si esce.
  • Divieto di esercitare le professioni con cui si sia commesso il reato; anche questo è giusto e opportuno, ma di difficile applicazione, nel caso che il reo rimanga a casa sua dove è difficile controllare i dettagli della sua vita, e ancor di più nel caso di reati informatici, per i quali ormai i mezzi necessari sono delle dimensioni di un orologio.
  • Detenzione domiciliare, disponendo gli opportuni controlli differenziati in base al tipo di reato commesso. Dovrebbe comunque trattarsi di controlli non particolarmente invasivi, perché altrimenti la dignità della persona sarebbe ugualmente compromessa.
  • Trattamento sanitario obbligatorio: disporlo come pena alternativa è cosa estremamente delicata, ma la cosa potrebbe essere studiata e valutata. Non è dissimile a una forma di educazione generalizzata alla sensibilità verso talune forme di reati.
  • La pena pecuniaria no: la pena pecuniaria non è uguale per tutti, né può esserlo. Quindi, sarà da applicare nel suo campo, ma guai a considerarla una possibile alternativa alla detenzione.

E per quali delitti? Limitiamoci ai più pericolosi, o meglio, a quelli che mi sembrano tali:

  • Crimini di guerra e contro l’umanità: nessuna alternativa alla detenzione.
  • Omicidio volontario e tentato omicidio: credo che nessuna modifica sia da apportare alla legislazione vigente. Per la vittima, in particolare se sopravvissuta, va pretesa la piena compensazione del danno.
  • Omicidio preterintenzionale: la detenzione domiciliare potrebbe essere applicata, ma con la dovuta prudenza, perché la preterintenzionalità è un concetto delicato.
  • Omicidio colposo: il tipo di colpa deve essere analizzato con estrema attenzione, perché non si può accettare il disprezzo per la vita altrui. Se questo ricorre, si dovrebbe trattare l’omicidio colposo come quello volontario.
  • Omicidio stradale: oltre alla detenzione domiciliare, occorre prevedere il ritiro perpetuo della licenza di guida, almeno nei casi più gravi e quando ricorra il disprezzo per la vita altrui.
  • Associazione a delinquere: la legislazione italiana in materia è più avanzata di quelle degli altri paesi, ma ciò non toglie che si possa ancora migliorarla, non con l’abolizione della detenzione, ma piuttosto con la sua revisione per evitare che la malavita penetri il sistema carcerario più di quanto non sia ora.
  • Rapina a mano armata: credo che nessuna modifica sia da apportare alla legislazione vigente.
  • Furto con scasso: credo che nessuna modifica sia da apportare alla legislazione vigente.
  • Furto con destrezza: occorre pensare a un reiserimento che consenta di utilizzare a vantaggio dei cittadini certe abilità, fatta salva la compensazione del danno, da applicare in ogni caso. I lavori socialmente utili potrebbero essere quelli nella protezione civile e nei vigili del fuoco.
  • Reati informatici: vale quanto detto per il furto con destrezza. I lavori socialmente utili potrebbero essere nella guardia di finanza e nella pubblica amministrazione.
  • Reati ambientali: sono tassativamente necessari la compensazione del danno, il ripristino ambientale e la generalizzata educazione alla sensibilità in materia; detto ciò, in futuro questo tipo di reati dovranno essere perseguiti con la massima efficacia, con pene che prevedano i lavori socialmente utili nella protezione civile.
  • Frode alimentare: se non sono associabili altri reati, vale quanto detto per i reati ambientali, con pene che prevedano i lavori socialmente utili nella sanità e nella protezione civile. Se altri reati si possono rilevare, allora si deve applicare quanto detto per essi, in particolare per l’omicidio preterintenzionale.
  • Spaccio di droga: prima di tutto, è necessario stabilire cosa fare per la depenalizzazione di parte di questa materia; una volta deciso questo, non c’è molto da cambiare, se non introdurre il TSO quando ricorra il caso dello spacciatore intossicato, evitando, ove possibile, la detenzione e privilegiando l’affidamento in comunità se non ricorre il disprezzo per la vita degli altri. Nel caso dello spacciatore intossicato, non vale quanto detto per il recidivo, perché la recidiva fa parte del processo di disintossicazione, ed è difficilmente evitabile.
  • Truffa: si può applicare la detenzione domiciliare o i lavori socialmente utili nella repressione del crimine, ma comunque accompagnate dalla compensazione del danno e dalla rinuncia alle future occasioni di comportamenti truffaldini mediante il divieto di svolgere determinate attività.
  • Usura ed estorsione: vale quanto detto per la truffa, ma solo se non ricorra anche l’associazione a delinquere: in questo caso, vale quanto sopra detto per tale crimine.
  • Corruzione: oltre alla detenzione domiciliare e alla compensazione del danno, va evitata qualsiasi occasione di reiterazione del reato, mediante il divieto di esplicare determinate professioni.
  • Concussione: oltre alla detenzione domiciliare e alla compensazione del danno, va evitata ogni occasione di reiterazione del reato, mediante il divieto di esplicare determinate funzioni.
  • Legittima difesa: la difesa è sempre legittima; si tratta di capire quando si tratti di vera difesa e quando invece nasconda altro. Se è palese l’intenzione di nuocere, nessun richiamo alla legittima difesa è accettabile. Ma questo l’abbiamo già detto in un’altra occasione.

In conclusione: ritengo giusto il principio sostenuto da G.M. Flick e da G. Colombo, ma temo che i tempi non siano ancora maturi; ci sono ancora valutazioni e studi da fare, sia in campo giuridico, sia in campo sociologico.

In questo senso, è necessario soffermarsi su cosa si possa fare per l’educazione all’onestà, che un tempo era parte essenziale del processo di crescita e che ora appare posto in non cale. Quando un genitore dice al suo rampollo “fatti furbo”, fa esattamente il contrario, ma purtroppo, questo tipo di società porta a queste aberranti considerazioni. E allora, il problema non sta nell’individuo, ma nella società, che sovente premia il furbo, laddove furbo è sinonimo di disonesto. È questo il feticcio che va abbattuto. Il resto seguirà.

Infine, per alleggerire un po’, mi torna in mente Pellegrino Artusi, quando, parlando di cibo, scriveva:

“Qui verrebbe opportuna una tiratina d’orecchi a coloro che adulterano per un vile e malinteso guadagno i prodotti del proprio paese, senza riflettere al male che fanno, il quale ridonda il più delle volte a danno di loro stessi, Non pensano allo scredito che recano alla merce, alla diffidenza che nasce e al pericolo di alienarsi i committenti. Ho sempre inteso dire che l’onestà è l’anima del commercio e Beniamino Franklin diceva che se i bricconi conoscessero tutti i vantaggi derivanti dall’essere onesti sarebbero galantuomini per speculazione.”

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