Romanzo di Jonathan Franzen
Siamo all’inizio degli anni ’70; sono in corso la guerra del Vietnam e l’affare Watergate. La famiglia Hildebrandt vive nell’Illinois ed è formata da sei persone: padre, madre e quattro figli. Il padre, Russell, è un pastore della chiesa battista, fondamentalmente deluso sia dalla vita familiare che da quella comunitaria; la madre Marion ha passato anni a lottare per la propria salute mentale, dopo una storia giovanile che l’ha profondamente toccata; il figlio maggiore Clement, Clem, va all’Università ed è insoddisfatto della vita che fa. Poi, ci sono Rebecca, Becky, l’unica figlia femmina, fiera delle proprie amicizie, ma incerta su tante altre cose; Perry, molto intelligente, ma borioso e scapestrato, che si metterà nei guai e ne creerà agli altri. Infine Judson, Jay, che ha nove anni ed è il più normale di tutti. Altri personaggi significativi sono la vedova Cottrell e il musicista Tanner: la prima è il sogno sessuale di Russell, il secondo quello di Becky. Le vicende sono lineari e, tutto sommato, prevedibili per tutti: a parte l’inquieto Perry, per tutti gli altri si intravede individualmente una soluzione, talvolta dolorosa, ma comunque progressivamente rasserenante, sia pure attraverso alcune rinunce. Sono però messi in evidenza i difficili rapporti tra le persone, e le loro difficoltà di relazione con il resto della società: la solidarietà con le componenti più povere e abbandonate (i neri delle periferie, i Navajo delle riserve) è improntata a paternalismo e le visite sembrano più scampagnate che missioni.
Il romanzo (Einaudi, 630 pp, 22 €) dedica ciascun capitolo alle vicende di uno dei personaggi maggiori, e sarebbe di facile lettura, se alcune volte non si perdesse ad approfondire dettagli che a me sono sembrati marginali. Mi sembra poi eccessivo il ricorso al linguaggio forte, e non sempre giustificabile.
Vale la pena? Direi di sì, ma con qualche riserva.